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Avendo seguito le quattro
date italiane di Ben Harper, il mio parere è che quella fiorentina sia
stata la migliore, anche grazie ad un pubblico caldissimo, che ha
risparmiato critiche al mezzo sangue californiano, a differenza di come un
qualsiasi occhio critico potrebbe muovergli.
La realtà è che Harper è
ormai una rockstar a livelli planetari, quindi da tale si muove (anche
goffamente), cercando di equilibrare con la scaletta pezzi dell'ultimo
"Diamonds on the inside", successo mondiale ma debole tassello
della sua discografia, e pezzi vecchi del suo repertorio "di
culto".
La comunicazione è scarsa, e all'apparenza non più
militante, se non nei testi delle vecchie canzoni, tra l'altro spesso
riarrangiate con risultati alterni.
Rimane un artista che, partendo dal
blues "duro e puro" degli esordi, fonde mirabilmente rock,
gospel, reggae, soul, country e, appunto, blues, in maniera sempre più
disinvolta e libera da schemi.
Il rischio è la deriva pop-rock, così
lontana da (esempio) "when it's good", ma così vicina in "Diamonds
on the inside" e "Brown eyed blues" (tanto per rimanere
circoscritti agli estratti dall'ultimo lavoro).
Viene l'amaro in bocca
quando, nel primo bis acustico, Harper propone solo quattro pezzi (tre dei
quali rispettivamente dal primo, secondo e terzo album) e, nonostante gli
urletti irrispettosi di quella parte del pubblico egocentrica per un
momento, e gli applausi a metà canzone, ci si accorge che la magia
dell'uomo seduto con la chitarra sulle ginocchia esisterebbe ancora e
potrebbe stregare intere folle, se solo lui lo volesse.
Rimane da capire,
infatti, se lui lo vuole.
di: Ale |