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Come uno sparo nel cuore
della notte (casomai la notte avesse un cuore): "Bugo è a
Firenze". Quando? "Domani sera". Dove? "Alla
Casa Del Popolo". Sì, ma quale? "Boh! In città ce ne
saranno settecento", esagera - ma neanche troppo - il mio
interlocutore. Però, siccome ho il Sentimento Westernato che
impazza tra miocardio e coronarie, non demordo: sguinzaglio segugi su
internet, scomodo le amicizie più impalpabili, importuno
centralinisti radiofonici, e finalmente stringo le coordinate intorno
a Settignano, ore 22:30. Ci sarò.
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Firenze,
09/03/2002 |
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Echi
dal margine, eroici manifesti alle pareti, chiacchiere, fumo.
Giusto quello che ci voleva. E anche una birra, gentilmente,
grazie: spillata appena in tempo, poco prima cioè che il
barista si dilegui raggiungendo gli altri in sala TV, tutti
ipnotizzati dalla performance di Benigni sul palco
degli orrori sanremesi. Tra loro anche il Bugo, alias
Cristiano Bugatti da Novara, in flagrante atto rifocillatorio,
tranquillo come una cavalletta al sole, lo stesso che più
tardi, scattante e affilato, sale su quello scherzo di palco
("un
palco blues",
lo definirà) solo con armonica, chitarra, il mixer ed una
allarmante magrezza nervosa. A dire il vero, c'è pure una
sedia male in arnese su cui a furia di nastro da imballaggio
qualcuno ha imbalsamato una scarcagnata sei corde elettrica,
come se fosse il feticcio di un sogno andato a male: prendiamo
atto con curiosità, ed inizia lo show.
Che viene fuori di una tenerezza brutale, tra irrisolti
dissidi esistenziali (Vorrei
Avere Un Dio, Solitario, Quando Siamo Stanchi),
amare disamine circa i grovigli della modernità (Pepe
Nel Culo, Ho Il Cellulare Scarico),
indomita epica trash e melodrammi minimali (Spermatozoi,
Sei Bella Come Il Dì).
Il taglio acustico è più una questioni di mezzi (leggi
budget) che altro, per cui giocoforza rimangono esclusi fior
di pezzi elettrici, ma è comunque bello l'impasto di
fibrillazioni blues, folk trasognato, sorprendenti effettacci
elettronici e inevasi gorghi di melodiosa afflizione. Su cui
piove l'estemporanea assolutezza di quei versi che sono un
tormento di metrica, una penombra affranta, una confessione
etilica, un ridere aspro sul disarmo dei giorni. Dovreste
proprio vederlo questo giovanotto, truce e sgangherato come lo
avrebbe disegnato il Paz (rabbia e cattiveria dileguate in un
feroce disincanto), hobo
punk fragile e convulso,
sgangherato saltinbanco-poeta, tenuto in piedi e tra i piedi
solo grazie ad un "rock che lo fa ballare come uno
shock". Insomma, son lì che mi diverto, e
automaticamente mi viene di esercitare il consueto viziaccio
dei paragoni: Will Oldham? Beck? Oppure un Dylan
appena sbarcato al Greenwich Village, un Battisti slacker,
un Thurston Moore sotto valium, uno Skip
Spence liofilizzato, un John Lee Hooker anfetaminico,
un Rino Gaetano lo-fi, uno Stephen Malkmus
primordiale, un Mark Linkous squattrinato...
La lista potrebbe continuare, ma il giochino si rivela presto
sterile: questo tipo sfugge ai tipi, il catalogo boccheggia,
ogni modello è sempre troppo o troppo poco. E quello che
manca o che avanza è proprio il Bugo, unità minima
indissolubile, uno col segreto delle canzoni da tre accordi,
letali, struggenti, inzuppate di cinismo e periferia, come un
colpo di coda del vero sulla forma(lità). Il set dura
cinquanta minuti, tra applausi convinti, suggestione e
benemerito divertimento. Alla fine c'è pure qualcuno che
reclama un bis con dedica (!?), per cui capita di assistere ad
una Sei
Bella Come Il Dì
rivista e corretta alla bisogna, cucita su misura addosso alle
disavventure dell'interessato: che mi ricordi, è la prima
volta che mi capita ad un cosiddetto concerto rock. Sarà per
tutto questo, e per le quattro chiacchiere scambiate poi col
Bugo (di quelle che confermano tutte le impressioni,
dall'asprigna naiveté all'amore per la Gioventù
Sonica),
che me ne torno a casa un po' più dritto, un po' meno
sfocato, con la sensazione di un segreto nel cuore. |
:: Stefano Solventi ::
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