La
serata fiorentina è fredda, ma qualcosa mi dice che tra
un po' dentro al Saschall farà molto caldo. Concerto esaurito
da diversi giorni, blocchi ai cancelli come non se ne erano mai
visti, per non creare affollamenti inutili : nonostante la capienza
media (sulle 3000 unità) della bella e moderna struttura
in riva all'Arno, segno di una evidente e diffusa popolarità
dall'australiano che mai mi sarei aspettato che ne so, dieci anni
fa, la prima volta che lo vidi dal vivo. La musica e i suoi ascoltatori
non finiscono mai di stupire.
Stranamente
per le abitudini fiorentine (ma al Saschall a dire il vero sono
piuttosto puntuali), alle 19,50 i Mercury Rev iniziano a suonare
(la cassa accrediti apre alle 20; quasi quasi mi incazzo), ma
prontamente salta l'impianto. Riprendono una decina di minuti
dopo, e suonano fino alle 20,30, una buona prestazione; non mi
colpiscono più di tanto, li trovo molto leggeri, anche
se "sinfonici"; mi vengono in mente i Queen meno potenti,
fatte le dovute differenze, ma anche delle pessime cose anni '80.
Gli darò senz'altro un'altra chance, magari stasera ero
emozionato, come se dovessi rivedere un vecchio amico.
Alle 21 eccolo
: preceduto da 11 elementi (3 coriste, un corista, e i Bad Seeds
attuali, 2 batteristi, tastiere, violino, basso e due chitarre),
ecco King Ink : è lui, nel suo splendido pallore, con la
sua improbabile acconciatura; la sua inconfondibile figura allampanata
riempirebbe il palco da sola, paradossalmente; questa sera, invece,
per lunghi tratti avremo l'impressione netta che gli undici musicisti,
pur tutti ottimi e impegnatissimi a fare la loro parte, si dispongano
a semicerchio intorno a lui, in trepidante adorazione mistica.
Si comincia
con "Abattoir blues", e sembra un messaggio, la summa
del Cave-pensiero musicale : stile, ruvidezza rock, l'eleganza
di uno chansonnier, una voce inenarrabile a parole. La prima ora
del concerto è tutta appannaggio dell'ultimo doppio "Abattoir
blues/the lyre of Orpheus"; perle già preziose come
"Easy money", o arricchite dalla dimensione live, come
"Supernaturally". Il coro fa rendere al 150% i pezzi
già nati "gospel", la band funziona spaventosamente
bene, Nick è in gran forma, detta i tempi, dirige l'orchestra,
arringa la folla declamando le sue poesie grondanti di dolore,
d'amore, di timore di Dio.
Con la cavalcata
di "There she goes, my beautiful world" si chiude la
prima parte del concerto, e molti sono già senza fiato.
Poco male, assisteranno in apnea alla seconda. Interamente dedicata
al repertorio l'ora seguente di concerto.
Difficile
descrivere la grandiosità degli affreschi musicali che
ci vengono concessi. "Red right hand", "Deanna",
"Stagger Lee"; probabilmente, il picco del concerto
è una superlativa, meravigliosa versione di "God is
in the house", nonostante i soliti esibizionisti dell'ugola
provino in tutte le maniere a rovinarla, facendo stizzire non
poco Nick, che prima prova a zittire la platea con un solo dito,
poi scimmiotta mentre canta l'urlatore che gli chiede "Hallelujah",
il tutto, come sempre, con il suo personale, inimitabile stile.
Bisognerebbe
farne statuette della figura di Nick Cave a gambe divaricate e
leggermente piegate, un braccio alzato col microfono in mano,
l'altro a scandire il tempo quasi come a spronare un cavallo immaginario,
sul quale galoppa e domina la scena. Sicuramente, chi lo ha visto
una volta non se lo scorda, anche senza statuetta.
"The
mercy seat" placa la sete dei fans di vecchia data, e conclude
il bis, che si era aperto con "The ship song" come se
Nick ci invitasse a partire sul suo bastimento.
Si accendono
le luci del Saschall, e intorno a me vedo solo facce soddisfatte;
non riesco a vedere la mia, ma è sicuramente simile alle
altre.
Questa
sera sono un asina, e ho visto un angelo.
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